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Antiche carceri fiorentine
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Antiche carceri fiorentine

 

Il centro storico di Firenze è rappresentato da un dedalo di viuzze medioevali, una sorta di labirinto storico-culturale impressionante, dove ogni visitatore che ha voglia di naufragare in questo dolce mare - come direbbe il grande Leopardi - ha l’opportunità straordinaria di galleggiare beato nella celeste bruma della perfezione e grandezza dell’ingegno umano: qui l’onda gelida dell’eternità nutre silenziosa la fame di conoscenza che ogni viaggiatore si porta dentro. In questo articolo vi farò scoprire una Firenze Segreta, che non è possibile rintracciare nelle bonarie pagine delle guide turistiche della città gigliata, né nei massicci tomi scolastici che sacrificano per ovvia necessità la microstoria. Oggi vi farò scoprire quali erano i luoghi della giustizia fiorentina, illustrandovi le oscure segrete dove venivano rinchiusi e torturati i condannati ed infine descrivendo storie relative ad alcune famose condanne.

 

Le più antiche carceri della città gigliata furono le “Burella” (dal latino: buio, oscurità), situate nei cunicoli sotterranei del vecchio anfiteatro romano già scomparso nel Medioevo (infatti dell’imponente costruzione romana sono rimasti solo questi oscuri cunicoli). Questi angusti passaggi erano privi di luce, umidi ed insalubri, servivano ai romani per l’allenamento dei gladiatori e per le gabbie delle belve. Lo stesso Dante utilizza il termine “Burella “ nel XXXIV Canto dell’Inferno (vv. 98-99), natural burella/ ch’avea mal suolo e di lume disagio. Di questo terrificante luogo riporta il Mannini in “Curiosità Fiorentine”,

E certa cosa è per istorie che altrove gli anfiteatri hanno avuto sotto le scalinate i suoi ripostigli.

Di quelle Burelle, che a mio credere erano di smalto, il Comune di Firenze si valse molte fiate per Pubbliche Carceri, e Segrete, pigliandole a prigione delle persone particolari, che le possedevano, massimo allora quando i prigionieri erano in buon numero. Certo è che in queste Carceri la Repubblica vi fece porre i prigionieri rimasti nella rotta di Campaldino . . . . che in Firenze ne vennero presi più di 740 e così frequentemente servivano in quel tempo a detto effetto che per Burelle si intendevano ordinariamente tutte le prigioni.

Furono quindi imprigionati più di 740 prigionieri ghibellini catturati durante la sanguinosa battaglia di Campaldino del 1289. Esiste ancora una via situata in quei luoghi chiamata via delle Burella nel quartiere di Santa Croce, una delle vie con andamento semicircolare che formavano insieme a Piazza dei Peruzzi da un lato, via Torta sull’altro, con l’arco di giro in via Bentaccordi e una piccola parte di via dei Benci, il perimetro dell’anfiteatro romano; in mezzo due strade sorte in seguito all’abbattimento dell’edificio romano: Borgo dei Greci e via dell’Anguillara (Franco Cesari, “Firenze Antica”).

Altre antiche carceri furono le “Bellanda” (facevano parte dell’antico teatro romano), sotterranei ubicati in piazza San Firenze, via dei Gondi, Palazzo Vecchio fino a via della Ninna vicino alla scomparsa chiesa di San Pier Scheraggio sede ai giorni nostri del tribunale fiorentino. Le Bellanda, erano carceri malsane prive di aria e inadeguate a garantire una sicura carcerazione, per questo furono in tempi brevi dismesse ed abbandonate. Ce ne rende testimonianza Giovanni Battista Uccelli in “Il Palazzo del Podestà”,

A’ 28 Marzo 1290 trovasi nominato la carcere Bellanda, pagandosi certo salario ai suoi guardiani... La prigione Bellanda era presso la chiesa di San Pier Scheraggio (ci sono molte fonti come per esempio il Davidsohn, Storia di Firenze, che localizzano questo carcere in piazza San Firenze) come si ha dal Gaye, forse così chiamata dal suo possessore, da cui toglieasi a pigione. Questa rimase distrutta a’ 24 luglio 1290 trovandosi in quest’epoca che si pagano a Feo di Costantino, capo di maestri muratori, per sé e 13 altri, per salario di 17 opere che fece << pro carceribus communis Fiorentine, et pro destructione carceris Bellande inter omnes libr.5. sol 12. f.p.>>

Quindi fino al 1301 (quando fu terminata la costruzione del carcere cittadino, “Le Stinche”, uno dei rari casi di strutture carcerarie cittadine nel medioevo), i condannati furono rinchiusi nelle burella, corridoi voltati sotterranei, caratterizzati dal “burius” = buio, attraverso i quali le fiere da spettacolo ed i gladiatori entravano nell'Anfiteatro romano o gli artisti nel maestoso Teatro. Le prigioni erano appaltate a privati e i detenuti erano tenuti a pagare una libbra al giorno per ogni giorno di carcere a copertura delle spese: così i più facoltosi potevano anche ottenere un trattamento migliore dietro il pagamento di una cifra adeguata.

A dire la verità vi erano anche altri luoghi di carcerazione nella Firenze Medioevale: le Torri. Un esempio per tutti è la Torre della Pagliazza, una delle strutture architettoniche più antiche di Firenze risalente al periodo bizantino, come dimostra la sua struttura ellittica (VI -VII. secolo), poggiante su un edificio romano preesistente.

Un'altra torre divenne grazie ad Arnolfo di Cambio famosa insieme al suo palazzo per le sue anguste prigioni e stanze di tortura. Il nome della torre era Torre dei Boscoli detta la Volognana ed il palazzo che l’aveva inglobata venne chiamato Palazzo del Capitano del Popolo, situato in via del Proconsolo, dal 1261 rinominato Palazzo del Podestà ed infine dal 1574 palazzo del Bargello, dove risiedeva il Capitano di Giustizia (capo di polizia di Firenze) e gli Otto di Guardia. La torre fu successivamente chiamata della Volognana, dal nome di Geri da Volognano uno dei primi carcerati ad aver visitato i sotterranei della torre. Il Villani nella sua “Cronica” riporta questo avvenimento:

Nel detto anno di Cristo 1267, del mese di Giugno, essendo di poco cacciata la parte ghibellina di Firenze, una gente de' detti ghibellin , pur de' migliori e caporali , si rinchiusono con loro masnade nel castello di Santellero, onde fu loro capitano messer Filippo da Quona, ovvero da Volognano, e cominciarono guerra alla città di Firenze, per la qual cosa i Fiorentini guelfi v'andarono ad oste le due sestora, e andovvi il maliscalco del re Carlo con tutta la cavalleria de' Franceschi ch'erano con lui, e per battaglia ebbono il detto castello nel quale avea rinchiusi bene ottocento uomini, che la maggiore parte furono morti e tagliati , e parte presi , e rimasonvi di quegli della casa degli Uberti, e de' Fifanti, e Scolari, e di quegli da Volognano, e di più altre case ghibelline uscite di Firenze, e loro seguaci, onde i ghibellini ricevettono gran damnaggio, e allora perderono anche i ghibellini Campi di Firacchi, e Gressa; e dicesi che uno giovane degli Uberti il quale era fuggito in sul campanile, veggendo che non potea scampare, per non venire a mano de' Bondelmonti suoi nemici, si gittò di sua volontà dal campanile in terra, e morì. E Geri da Volognano fu menato preso con altri suoi consorti, e messo nella torre del palagio; e però poi sempre fu chiamata la Volognana.

Altra torre usata come prigione, fu quella della famiglia dei Foraboschi, detta la Vacca per l’enorme campana che risuonava dal campanile dell’antica casa-torre. Questa prigione ospitò nel XV secolo due illustri personaggi fiorentini, Cosimo il Vecchio, nonno di Lorenzo il Magnifico, e vero pater patriae del casato mediceo e Girolamo Maria Francesco Matteo Savonarola, il frate domenicano che guidò la Repubblica gigliata dal 1494 fino al 1498, anno in cui il partito mediceo riuscì a farlo arrestare, condannare come eretico e ardere in Piazza della Signoria.

Ne riporta testimonianza il Macchiavelli nelle “Istorie Fiorentine”:

È nella torre del Palagio (Palazzo Vecchio) un luogo tanto grande quanto patisce lo spazio di quella, chiamato l’ Alberghettino, nel quale fu rinchiuso Cosimo e dato in guardia a Federigo Malavolti. Dal quale luogo sentendo Cosimo fare il parlamento, ed il romor dell' armi che in piazza si faceva, e il sonare spesso a Balia, stava con sospetto della sua vita; ma più ancora temeva, che straordinariamente i particolari nimici lo facessero morire. Per questo s' asteneva dal cibo, tanto che in quattro giorni non aveva voluto mangiar altro che un poco di pane.

Ed ancora Giovanni Cavalcanti nel suo libro “Della carcere, dell’ingiusto esilio e del trionfal ritorno di Cosimo” riporta la prigionia del Savonarola nella stanza della torre:

In questa medesima Torre, e precisamente, in quella stanza (l’Alberghettino) quasi in vetta di essa torre situata, com'è costante fama, sul declinare dell'istesso secolo, vale a dire, nel 1498, fu pur detenuto per più d'un mese il pio, dotto e innocente P. Girolamo Savonarola da Ferrara con altri due suoi illustri colleghi e quindi con eterna infamia di chi il processò, sentenziò, e vi ebbe parte, fu ivi con essi in pubblica piazza ignominiosamente dopo tanti martiri strangolato.

Essa carcere poi al dir del Machiavello, e di tutti gli altri nostri storici, che l’un l’altro si son copiati, denomnavansi l’Alberghettino, o come leggesi in un ristretto della vita di Cosimo riportata a pag. 15 del Vol V. di Notizie Istoriche raccolte da Modesto Rastrelli, malalberghetto, opponendosi tutti alla vera denominazione, che Cosimo stesso ne’suoi Ricordi le dà di Barberìa. Fui, egli dice, dal Capitano de’ fanti messo in una camera, che si chiama la Barberìa, e fui chiuso dentro, cioè, dove si facea, o si era in avanti fatta la barba.

In effetti questa preziosa notizia la possiamo ritrovare nell’articolo di Tommaso Forti “Foro Fiorentino, ovvero degli Uffizi, e Magistrature della Città di Firenze”:

Barbiere della Signorìa «Li Signori Priori, e Gonfaloniere di Giustizia vedendo la necessità, che avevano d'un Barbiere, e parendo alla loro grandezza cosa inconveniente il servirsi di un uomo, che stessi fuora al servizio d'ogni sorte di gente, deliberorno fra di loro di eleggere un Barbiere nel luogo, e in cambio di un del Rotellino, con quel salario, et emolumenti,che participavano gli altri famiglj; e tale elezione la facevano per quel corso di tempo, che a loro piaceva, non passando però mai un anno. Poteva tal barbiere, finito l'anno, esser da'Signori riconfermato, o cassato. Non poteva tal barbiere servire altri, che i Signori Priori, e Gonfaloniere di Giustizia, e quelli, che in particolare gli era dalla Signoria ordinato. Era obbligato star sempre vigilante, e pronto per li bisogni, che fussero occorsi del suo mestiero. Non eragli permesso per alcun modo esercitare 1’ufizio fuor del Palazzo, mentre stava in questa elezione, e carica ; né meno poteva tenere aperta bottega propria, o d'altri, e tanto da per se, o in compagnia; e perchè fusse stato sempre assistente, oltre il salario, ed emolumenti, che di ragione li si pervenivano, era continuamente spesato nel suddetto Palazzo nel modo, e come avevano li donzelli de'Signori ...

Come accennato prima, nel 1301 si aprirono le porte del primo carcere comunale fiorentino, che prese il nome di “Stinche” dal 1304. La storia completa della nascita del carcere comunale e del suo nome, viene già riportata da Giovanni Villani, coinvolto lui stesso nel fallimento dei Buonaccorsi, per i quali aveva condotto le trattative fallimentari, fu incarcerato alle Stinche il 4 febbraio 1346, dove rimase per qualche tempo (“Istorie Fiorentine”, capitolo 74 dell’ottavo volume)

Nel detto anno (1304.) e mese d’Agosto essendo la Città retta per le  XII.  Podestadi, ordinarono oste a perseguitare i Bianchi e Ghibellini; quali avevano rubellate più fortezze e castella; e intra le altre, il castello delle Stinche in Val di Greve a petizioni de’Cavalcanti; al quale v’andò la detta oste, e posonvi l’assedio, e combatterono, ed a patti s’arrenderono a prigioni: e’l castello fu disfatto, e prigioni menati in Firenze, e messi nella nuova prigione, fatta per lo Comune in sul terreno delli Uberti di costa a Santo Simone. E per quelli prigioni venuti dalle Stinche, che furono i primi che vi furono messi, la detta prigione fu detta le Stinche.

Ne riporta notizia anche il Macchiavelli (il quale fu ospite dello stesso carcere anche lui come Giovanni Villani) nel II capitolo delle “Istorie Fiorentine”:

Partiti i Ribelli si tornò Firenze nelle antiche sue divisioni e per torne autorità alla famiglia de’ Cavalcanti gli tolse il Popolo per forza le Stinche; castello posto in Val di Greve, ed anticamente stato di quella (possedimento della famiglia dei Cavalcanti). E perché  quelli che dentro vi furono presi, furono i primi fussero posti nelle carcere di nuovo edificate, si chiamò di poi quel luogo, dal castello donde venivano, ed ancora si chiama, Le Stinche.

Una completa descrizione delle Stinche ce la forniscono Marco Lastri e Giuseppe del Rosso nel loro libro “L’osservatore fiorentino sugli edifizj della sua patria” Volumi 13-16:

 


Capitolo I

Donde e quando avesse principio in Firenze la costruzione delle Prigioni denominate le Stinche

Le fazione dei Guelfi e dei Ghibellini, che tante stragi e tanti disastri cagionarono all’Italia, infierivano già da oltre mezzo secolo in tutto il dominio della Repubblica Fiorentina sotto il nome di Neri e Bianchi, allorchè nell’anno 1304 fu da Pontefice Benedetto XI mandato in Firenze il Cardinale Fra Niccolò da Prato Domenicano all’oggetto di quietare le civile discordie e pacificare gli animi dei Fiorentini e di altre genti loro vicine. Il Prelato giunse in Firenze a’ 10 di Marzo, e non solamente fu ricevuto con grand’onore, ma ebbe altresì dai Cittadini ampia facoltà di eseguire quanto era conforme al carattere della sua Legazione. Egli infatti introdusse vari cambiamenti nel Governo della Repubblica; ma favoreggiando non solo la parte dei Neri o Guelfi che era quella che allor prevaleva, ma pur l’altra dei Bianchi o Ghibellini, e richiamando molti dei Fuorusciti, venne sospetto al popolo, e si credè che quegli, invece di quietare gli animi, volesse soddisfare alla propria ambizione. Tale sospetto aumentò quando si seppe che i Ghibellini venivano con gran numero di gente alla volta di Firenze, né punto diminuì, sebbene i Fuorusciti sen tornassero dond’eran venuti. Finalmente essendosi il Cardinale portato a Prato e a Pistoja affine di quitare le dissensioni di quegli abitanti, né venendogli fatto di ottenere l’intento; e fallitagli pure l’impresa di costringere colla forza delle armi quei renitenti popoli, all’obbedienza; fatto certo di essere venuto in odio e ai Fiorentini e agli altri, e temendo di peggio, se ne partì il giorno 4 di Giugno, ritornando al Papa, e lasciando invece della pace,la scomunica a Prato, Pistoja e Firenze. Restò il Cardinale irritato pel trattamento dei Fiorentini ricevuto, e giurò di vendicarsene. Avendo dunque segretamente istigati i Fuorusciti ed i Bianchi Aretini e Bolognesi, fece dai medesimi assalire Firenze e poco macò che questa città, d’una parte della quale eransi per sorpresa impadroniti, non restasse in potere di coloro. Ma vennero respinti e fugati, e molti fatti prigioni, parte dei quali furono miserabilmente impiccati. Ciò accadde a’ 20 di Luglio del già detto anno 1304.

Ora, molti essendo gli sventurati che caddero in potere dei Guelfi vincitori, e non avendo i Fiorentini carcere alcuna capace di contenere un gran numero di prigionieri, intrapresero a fare un circuito di mura per fianco alla Chiesa di San Simone, per entro ordinandovi le stanze, le quali potessero servire a simili occorrenze.

Il terreno ove fu edificata questa carcere, fatta a forma  d’Isola quadrilatera, apparteneva già alla nobile e potente famiglia degli Uberti, di Firenze espulsa fino dall’anno 1158 per le solite terribili cittadinesche discordie.

E siccome Messer Tolosatto degli Uberti guidava una di quelle schiere dei Bianchi, che tentarono la indicata impresa contro Firenze, può con una certa probabilità credersi che il terreno appunto ove esistevano e ov’erano state atterrate le case di quella famiglia, fosse prescelto dal Comune di Firenze a onta maggiore dei vinti.

Il Castello delle Stinche essendo stato dai Fiorentini espugnato e distrutto nel mese di Settembre dell’anno 1304, ed il trasferimento di quegli abitanti nelle Carceri avendo avuto luogo in quel medesimo tempo, ne risulta per conseguenza (poiché le carceri furono incominciate, com’abbiam detto nel Luglio) che nel breve spazio di soli due mesi fosse, almeno in gran parte, condotto al suo compimento quella vastissima fabbrica.

Altri autori come il Davidsohn, in “ Storia di Firenze” (vol.V, p.617), datano in modo più credibile, l’inizio e la fine dei lavori del nuovo carcere comunale tra il 1299 e il 1301.

Molto più accurata è la descrizione dell’uso delle Stinche e della sua amministrazione:

Sembra che queste Carceri fossero quasi fin dall’epoca della loro costruzione destinate a rinchiudere non solo i rei per cause politiche e criminali, ma pur anche i debitori insolventi….

In quel tempo, come di poi, erano deputati alla custodia de’ rinchiusi quattro o cinque cittadini popolari e guelfi, i nomi dei quali venivano tratti a sorte dalle borse a quest’effetto destinate, e l’estrazione si faceva alla presenza de’ Priori e del Gonfaloniere di Giustizia. Soprattutto dovevano essere tutti uomini da bene e di ottima fama, e venivano chiamati Soprastanti, ed ai medesimi presedeva un capo nominato il Guardiano. Le elemosine, che venivan fatte ai ritenuti, erano amministrate da questo Guardiano, e secondo l’opinione del Manni  sembra che non fossero poche.

Dalla citata rubrica XXIV dello Statuto, rilevasi che l’amministrazione di quel  luogo doveva essere esattissima. E siccome la Repubblica Fiorentina si sosteneva per la mercatura, e questa ha la base nella buana fede, non è da meravigliarsi se le sue leggi contro i falliti fossero alquanto severe. La scarsità del vitto non era la sola che affliggesse i miseri carcerati, la strettezza di molte persone insieme riunite, la tetraggine del luogo e l’avvilimento in cui si tenevano, rendevano loro insopportabile la prigionia. Per legge emanata nel 1398 s’introdusse l’uso, che mancando il Carnefice, potesse esser forzato chiunque de’ detenuti per debito, a farne le veci.

Il Lastri ci fornisce anche una precisa descrizione del carcere fiorentino:

Per quello che spetta alla forma esterna di questa Fabbrica, era, come abbiamo accennato, di un isola quadrilatera; e le quattro muraglie, costruite di  pietra forte, secondo la rozza ma robusta maniera di quei tempi, davano a quell’edilizio un aspetto disaggradevole e tetro, che faceva a prima vista conoscere qual fosse la sua destinazione….

Sull’estremità, e precisamente presso agli angoli formati dalle muraglie di levante e di tramontana, di tramontana e di occidente, si vedevano in alto due armi in pietra, in forma di scudo, l’una delle quali, avente una croce di tutta la larghezza ed altezza del suo campo, rappresentava l’arme del Popolo di Firenze, mentre l’altra con in mezzo un Giglio era l’insegna  della Fiorentina Repubblica.

Una picciola porticciuola situata quasi nel mezzo del lato principale, che guardava a tramontano, dava adito a queste Carceri. Sopra appunto l’architrave di quella, in un cartello di marmo bianco erano scolpite le parole:


OPORTET MISERERI

Le quali esprimevano la  filantropica massima, che “conviene  esser misericordiosi” verso glinfelici, sebbene colpevoli.

Un ottimo lavoro è stato svolto anche da Luigi Pruneti nel suo libro “Firenze dei misteri”, riportando notizie del Davidsohn, del Conti, del Bargellini ed altri ancora, riguardanti la descrizione e le condizioni vissute dai prigionieri del carcere delle Stinche:

Si trattava di una sorta di castello a pianta quadrangolare, senza finestre sui muri perimetrali e un vasto cortile interno che dava luce alle celle.

Il complesso era circondato da fossati colmi d’acqua, per questo era chiamato isola (Isola delle Stinche).

Ed ancora: Il termine “stinca”, invece, indicava la parte più elevata di un rilievo…

La vita dentro la prigione era durissima, anche per la gestione affidata ad appaltatori disposti, pur di guadagnare, a fare economia su tutto. Per loro era essenziale che non vi fossero evasioni, mentre aveva scarsa importanza lo stato dei prigionieri perché ben difficilmente la Signoria avrebbe effettuato controlli. Perciò la paglia, letto e coperta dei carcerati era cambiata ad intervalli di tempo lunghissimi e spesso si trasformava in un letamaio putrido.

Sul cibo poi non si scherzava: acqua sporca e un po’ di pane di pessima qualità….

La loro salute costituiva il problema più grave, dato che l’assoluta mancanza di igiene  e la sottoalimentazione sfibravano pure i soggetti più robusti….

Nel 1333 come riporta il Davidsohn, nelle sue “Storie Fiorentine” (vol.VII, cit, p104), fu costruito un ospedale carcerario ed al suo mantenimento provvedevano donazioni di privati cittadini.

Pruneti mette in luce anche un altro aspetto molto importante, cioè la disparità di trattamento tra i detenuti:

La carità, in effetti, era per molti prigionieri l’unica speranza e, se non giungeva loro un po’ di cibo e qualche coperta dall’esterno, sopravvivere era una scommessa. Non tutti però erano così sfortunati: chi aveva i mezzi a sufficienza poteva ottenere, con tre soldi al giorno, l'agevolezza, cioè un miglior trattamento e cibo più abbondante ed accettabile.

L’ubicazione delle antiche carceri delle Stinche si trova all’incirca dove adesso sorge il Teatro Verdi , nel quadrilatero formato da via Ghibellina, via dell’Isola delle Stinche, via dei Lavatoi e Via G.Verdi; accanto esiste ancora l’antica chiesa di San Simone e Giuda.

Vi lascio con una poesia di Sebastiano Ciampi, ripresa dallo scritto del Lastri:

Qui dove il vincitor rinchiuse il vinto,
Qui dove il debitor scontò la sorte,
Qui dove reo catene ebbe e la morte,
O stava forse l’innocente avvinto;
Qui, degli antichi fati il duolo estinto,
Al sollazzo, al piacer s’apron le porte,
E l’ore, eterne un dì, fannosi corte,
E gaudio e riso in fronte ha ognun dipinto.
Ama fortuna di mutar sua faccia,
E pianto e riso avvicendare: incerto
E’ il suo durar, se mai lieta s’affaccia.
Non ti fidar di lei; doman ripianta
Triboli e spine ov’or ti mostra aperto
Cammin fiorito, che seduce e incanta.

È incomparabilmente meglio prevenire i delitti che punirli. Il disegno e l'oggetto d'ogni buon legislatore dev'essere di prevenire i delitti, e ciò non consiste che nella scienza di condurre gli uomini al più alto grado di felicità; e se non è possibile di sradicar tutti i mali, non tollerar che quelli almeno che sieno i meno nocevoli. Se si proibiscono molte azioni che si riguardano in morale come indifferenti, non si tolgono però i delitti che ne possono risultare. Al contrario si dà luogo ad altri. Volete prevenire i delitti?  Procurate che le scienze si diffondano sempre più fra gli uomini, e che l'intelletto s'illumini. (Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene”)

E come sempre buona ricerca e buon cammino amico viaggiatore.

Gianni Mafucci
http://www.firenzesegreta.com

 

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