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La Chioma di Berenice alla Biblioteca Laurenziana
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La Chioma di Berenice alla Biblioteca Laurenziana

Storia e fortuna di un ricciolo. L’apparire sulla fine del xix secolo di testi perduti di autori come Bacchilide, Aristotele, Iperide, Eroda fu determinante per lo sviluppo, o piuttosto la nascita, della Papirologia. È il caso della Chioma di Berenice di Callimaco, il più dotto fra i dotti poeti dell’Ellenismo egiziano (303 circa-235 circa a.C.), della quale era sopravvissuta la traduzione latina di Catullo nel Carme LXVI. Dell’originale testo greco, invece, alla fine dell’ormai lontano gennaio 1929, non si conservavano che ben poche briciole nella tradizione scoliastica o etimologica a disposizione degli studiosi, quando Medea Norsa, scolara e collaboratrice di Girolamo Vitelli, già professore di Letteratura greca al R. Istituto di Studi Superiori di Firenze, fondatore della Papirologia nel nostro Paese, ne decifrò al Cairo poco più di una ventina di versi.

 

Tali versi appartenevano alla colonna di un rotolo la cui scrittura si poteva datare con una certa precisione, ricorrendo a criteri paleografici, alla metà del I secolo a.C., intorno agli anni quaranta. La Norsa era ai suoi primi viaggi in Egitto e tra i suoi compiti vi era quello di visitare gli antiquari che vendevano papiri, primo fra tutti Maurice Nahman, che aveva casa e bottega nella stessa strada (Sharia El-Madabegh) della pensione Morandi, dove lei alloggiava. Tra quelli in possesso di Nahman, la papirologa aveva identificato i versi perduti di Callimaco e ne aveva inviato trascrizione e notizia, utilizzando addirittura il telegrafo, al Vitelli, al tempo ottuagenario senatore del Regno, che, in due cartoline postali del 21 e 28 gennaio, manifestava il suo giovanile entusiasmo per la scoperta: Firenze, 21.1.’29 Cara Signorina, ma la Chioma di Berenice non era in cielo? Dunque, mentre le antiche farmakeuvtriai al più potevano caelo deducere lunam, Lei può anche sollevarsi in cielo a portar giù quello che c’è lassù. Molto bene, e mi rallegro. Anche soli 20 versi completi sono una gran cosa: avevamo un po’ diritto a questa soddisfazione, non è vero? Cosa dovranno ora dire di Lei i dotti callimachei? Speriamo non vi sia tra essi qualche grande astronomo che mi portino via addirittura Lei fra le stelle… Il telegramma è giunto qui alle 16! Evviva il telegrafo… (Carteggio Norsa, 718) Firenze, 28.1.’29 Cara Signorina, Ricevei ieri la Sua lettera e ricevo oggi (lunedì) l’altra Sua con la trascrizione della chioma! Ma brava, veramente brava! E buona anche, perché ha pensato al piacere che mi avrebbe fatto. Mi son messo subito al lavoro, e qualcosa sono riuscito a rimettere in gamba. Molto di più potremo fare, quando Lei sarà qui. Dunque, mi rallegro di tutto cuore. Soprattutto è interessante che è scomparso lo struzzo (vv. 52 sqq. di Catullo), ed è rimesso nel debito onore Zefiro! – In somma, nel suo piccolo, è una trouvaille di primo ordine. Me ne rallegro anche per Lei… (Carteggio Norsa, 719). Fu un ritrovamento sensazionale, non tanto per la quantità del testo quanto per il tipo sul quale gli studiosi per secoli si erano ripetutamente esercitati in versioni e retroversioni, cercando di recuperare dal latino di Catullo il colore poetico dell’originale perduto. Lasciando ai filologi la questione delle redazioni callimachee della Chioma (la prima del 246-245 a.C.), della sua inserzione negli Aitia, così come della stesura (nel 56-55 a.C.) del Carme LXVI di Catullo e della sua fedeltà al testo greco, veniamo piuttosto all’occasione di tale composizione e ai personaggi che ne sono i protagonisti: la regina Berenice, il suo celeste ricciolo, l’astronomo di corte Conone, il re Tolemeo III Evergete, la terza guerra di Siria (246-241 a.C.). Berenice, ellenistica Veronica, “colei che reca la vittoria”, era nata intorno al 270 a.C. da Magas che governava la Cirenaica, di cui si proclamò re nel 282 a.C., alla morte del patrigno, promessa in sposa a Tolemeo figlio di Tolemeo II Filadelfo, in modo che la dinastia dei Lagidi, a capo dell’Egitto, potesse assicurarsi senza combattere il governo e il potere effettivo sulla Cirenaica. Accordo che venne rotto dalla madre, e vedova di Magas, Apame, sorella di Antioco II di Siria: la mano di Berenice fu offerta a Demetrio il Bello, fratello di Antigono re di Macedonia per ragioni di convenienza politica: una Cirenaica indipendente dall’Egitto giovava di più ai Seleucidi. Ma Demetrio fu fatto uccidere per volere di Berenice nel letto di Apame, di cui era diventato nel frattempo amante. La fazione filoegiziana di Cirene, sostenuta da Tolemeo II era riuscita a ribaltare di nuovo la realtà politica e, alla morte del re, nel gennaio 246 a.C., Berenice regina di Cirene assunse al trono d’Egitto il 27 dello stesso mese come sposasorella (in realtà cugina) di Tolemeo III Evergete. Tra l’ottobre 247 e l’aprile 246 morì Antioco II di Siria, già sposo di Laodice, che aveva ripudiato per sposare nel 252 a.C. un’altra Berenice, figlia di Tolemeo II, dalla quale ebbe un figlio. Laodice però fece proclamare re di Siria suo figlio Seleuco II, inventandosi la storia della riconciliazione in punto di morte con il marito Antioco che avrebbe in realtà lei stessa avvelenato. L’instabile equilibrio politico nel Mediterraneo orientale con la morte di Tolemeo II e di Antioco II fu ormai compromesso: la parola passò agli eserciti. Scoppiò la terza guerra di Siria (246-241 a.C.), che il primo anno vide Tolemeo III impegnato direttamente nella campagna militare destinata a portare l’esercito a Cipro, in Siria, in Asia Minore, con l’invasione di Mesopotamia, Babilonia, Susiana, Persia, Midia, fino alla Battriana. Tolemeo III rientrò ad Alessandria alla fine dell’estate o nell’autunno del 245 a.C. Berenice che era rimasta sola proprio i primi mesi successivi alle nozze, e che aveva fatto voto di offrire agli dei una ciocca della sua chioma se il marito fosse ritornato salvo ad Alessandria, finalmente poté adempiere al giuramento. In questa promessa si mescolavano i motivi egiziani del mito di Iside, che si recide le trecce alla notizia della morte di Osiride, e quelli più vicini alle tradizioni continentali omeriche di un Achille che sul rogo di Patroclo si taglia la bionda chioma – destinata, invece, nella sua intenzione iniziale al fiume patrio, lo Spercheo, in Tessaglia – in segno di lutto (Iliade XXIII, v. 141). Assai diffusa nella Grecia antica era l’usanza per cui i giovani offrivano, al raggiungimento della maggiore età, una ciocca di capelli a un dio, a un eroe o a un fiume (divinità che permette il nutrimento degli uomini), come nel caso di Oreste ai versi 6-7 delle Coefore, giunte a noi in modo fortuito grazie a uno scolio, a una nota di commento a Pindaro «un ricciolo per l’Inaco, che ne ripaghi il nutrimento, e quest’altro come segno di lutto». La treccia di Berenice fu tagliata e consacrata agli dei; ma l’offerta posta nel tempio di Arsinoe Zefirite scomparve il giorno dopo. L’astronomo di corte Conone, desideroso di entrare nelle grazie di un irritato sovrano, proclamò che la chioma non era stata rubata ma collocata tra gli astri: era riconoscibile, infatti, in un gruppo di sette stelle situato nell’area della costellazione del Leone, fra la Vergine, Boote e l’Orsa Maggiore. L’astronomo ne codificò dunque la scoperta e il poeta ed erudito Callimaco ne cantò l’evento con un’elegia destinata a non superare i confini del tempo, se non grazie alla tarda traduzione latina di Catullo e ai frammenti che dopo due millenni le discariche di una antica città egiziana e i cassetti di un mercante hanno restituito agli occhi, alle mani esperte, alla dottrina di un’altra donna dal nome ellenico di Medea. Una storia d’amore come questa non poteva non passare attraverso la mediazione di un poeta dell’amore come Catullo, che al retore Quinto Ortensio Ortalo inviò, in un momento di fiero dolore, i versi tradotti della Chioma di Berenice: «mitto haec expressa tibi carmina Battiadae» (Carme LXV).

 

 

 

 

 

 

 

Autore

Enrico Bocci

 

 

 

 

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